Tre sono le cose nella zucca di dentro che è essa stessa l'abisso: l'abisso di Leonardo, l'abisso degli stregoni, l'abisso ad un istante di tempo della tradizione, immobile come il rappresentante del defunto, silenzioso come un abisso, si manifesta come un drago. Siccome vedere è fornire istantaneamente l'ultimo termine di sostituzione di una serie non bisogna prendere sul serio queste pretenziose parole di spazio e di tempo. Piuttosto il ritorno all'abisso di solitarissimi giochi meridiani, dove se era presente lo era ad una distanza incommensurabile. Piste attraverso il deserto od addirittura l'altrove i movimenti delle lettere. Sono le vie a mettersi in cammino. Non si sa se siano fiocchi di neve o fiori di pesco a trasvolare tutt'intorno. L'analogia della forma percepita con il modello, o forma genetica, frena la catastrofe della percezione, grazie al fenomeno della risonanza. Possiamo noi, infatti riconoscere qualcosa che non sia già parte di noi?
Radice. Fonte. Al centro. Oltre il viso di pianto e la bocca tremante, l'asciugamano umido intorno alla testa, un buio senza conciliazione. Il suo organo trasmesso in una luna di pochi millimetri, quelli sono ancora di più che gli anni luce. Un arretramento leonardesco in tre abissi, uno è silenzioso, l'altro è una stanza pascaliana, nell'altro vi si salta. Viste da vicino una pietra od una foglia sono infinite. Dai Vedanta ad Heisenberg, passando per Kafka ed Orson Welles: problema del testimone e della sua probabile localizzazíone. Da parte di Valery è una concessione alle affettazioni di questo secolo leggere l'abisso leonardesco come un ostacolo tecnico od una sfida a chissà quale ingegno.
Lezama Lima, riferendosi all'episodio cervantesiano della visita di Don Chisciotte in casa dei duchi ne definisce il sortilegio narrativo come quantità incantata, senza andare oltre, come al solito il suo dettato fra oracolare e barocco (si intenda: senza fornire referenti ermeneutici). D'altronde Carmelo Bene, commentando lo stesso episodio, prima ancora della pubblicazione del citato volume di Lezama Lima, afferma essere non Cervantes né Don Chisciotte il locutore, ma il cosiddetto elmo di Mambrino, vale a dire la bacinella da barbiere... Questo a dire quanto fatale sarebbe l'offuscamento della differenza fra locutore ed attante, perdita della quale nessuna prudenza semiologica vale a scampare.
Le sfere armillari, le parallasse, l'epicicloide, localizzazioni non cartografiche né tecnologiche del o dei progetti globali, alle periferie più estreme. Gli oggetti, o meglio le materie del contendere: criseide, briseide, le armi di aiace ormai inutili, rare edizioni di pynchon, un neo quasi invisibile sopra il labbro superiore a sinistra, inutili ore di strada ferrata fino alle soglie della bestialità pura, una città fatta di niente, fatta e basta.
"Le catastrofi peggiori non sono quelle che distruggono le nostre case, sono quelle che decimano i nostri incanti".
A questo punto: chiedersi come la scrittura del disastro, l'inventario accuratissimo delle rovine e degli stilemi... l'alternarsi di frasi fatte e frasi disfatte, il tutto messo per iscritto, rigo per rigo, con il sottile compiacimento della devastazione. Viviamo in un universo per la sua gran parte disorganizzato, rapide incursioni nel sud est asiatico, d'altronde subito smentite con fermezza. Il fatto che l'orsa maggiore stesse probabilmente dormendo o che le stelle si fossero inesorabilmente spente, ad una ad una non impediva affatto di immergersi del tutto in lei come in un coloratissimo acquario.
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