Daccapo. Desemantizzazione e deideologizzazione le parole chiave. Da prima e oltre le loro versioni rassicuranti e cosmetiche, declinate in neo e post. L'antiracconto. Probabilmente le istruzioni dei ragazzi selvaggi di William Burroughs: "Le sequenze narrative sono precedute dal titolo sullo schermo e poi mi ritrovo nel film. La transizione è indolore come entrare in un sogno. Il peep show strutturalizzante può sparpagliare la narrativa e poi mi ritrovo davanti allo schermo e mi muovo dentro e fuori di questo". Tutto questo contro le illusioni del referenziale, dell'esemplare, del significato prestabilito, della comunicazione diretta, del voler dire. Dunque il soggetto non è la figura, né l'istante-caleidoscopico e vertiginoso dell'immagine (costituisce quel cortocircuito prodigioso in cui tutto diviene riconoscibilie; si tratta all'opposto di linee divergenti da sé stesse, stornamenti senza fine all'interno della pura perversione del divergere, nelle finzioni tortuose che fondano il divertimento. Duplicemente caratterizzato il clima in cui avviene ciò: regime di perpetua transizione al caso e riciclaggio infinito, con oscillazioni perpetue fra la fiaba denarrativizzata, la comunicazione simulata, il puro rumore dell'interferenza entro il quale l'opera si pone quale epifenomeno residuale di un processo comunicabile solo in absentia, lateralità d'uno scarto d'irrevocabile secondarietà. Infine: scorci di atrocità pura, quel che non andrebbe né figurato né detto, e che, quand'anche venga mostrato continua ad appartenere all'irrappresentabile, a tutto discapito delle evidenze esteriori. Di ciò si è gia detto, recentemente, della pittura come sottoconversazione e gaffe, dell'arte quale silenzio ricavato dalle immagini più chiassose. Rumore su fondo di silenzio, rumore che torna al silenzio, dopo essersi mostrato nell'inganno ora soave ora insostenibile delle apparenze. Una cartografia, virtuale, dell'isola che non c'è. Identificazione del prestanome come di un virus sconosciuto.
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