1. spettatori, i plebei
elisabettiani fossero tutti geni; e se noi il linguaggio difficile non lo
capiamo più, se non con un certo allenamento, vorrà dire che siamo diventati
bischeri. Io penso che le cose non stiano a questo modo: ho l’impressione che
quel linguaggio sia diventato da difficile incomprensibile semplicemente perché
è cambiato il nostro atteggiamento verso il linguaggio, verso l’uso che se ne
può fare. Questo cambiamento è avvenuto all’incirca da un secolo, forse anche
meno. Grazie a giornali, radio e televisione oggi la nostra società parla il
linguaggo più misero, affranto, falso, ripetitivo, morto, neghittoso che si sia
mai parlato; sono convinto che se noi, gli astronauti analfabeti, incontrassimo
gli uomini dela pietra, non riusciremmo assolutamente ad afferrare il loro
linguaggio che suppongo sottile, fantasioso, complesso, assolutamente
shakespeariano. Può essere che il linguaggio shakespeariano agisca in modo
traumatico su un pubblico – qualsiasi pubblico – : ed è il trauma della totalità
nei confronti della settorialità burocratica; è, infine, il trauma del
linguaggio normale perché ricco nei confronti di un linguaggio focomelico e
intimamente sventurato. Un mondo psicologico ricco esige un linguaggio ricco,
ed un linguaggio povero comporta la frustrazione, l’avvilita elemosina di un
mondo squallido. Vorrei essere chiaro: nel nostro mondo esiste l’assoluto
contrario teatrale di Shakespeare: è Eduardo. Eduardo può ‘andar bene’ per i
metallurgici: ama i poveri ed è di sinistra; ma il suo linguaggio teatrale è
probabilmente il più perfettamente reazionario che esista nell’intera Europa.
Certo, Eduardo lo si capisce: come no? E’ fatto per essere capito, cosa che non
è assolutamente di Shakespeare [...]»
(G. Manganelli, Quella volta
che mi tuffai tra le masse, “L’Espresso” 8 dicembre 1974
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