Esistono in Italia, ab aeterno, due generazioni di poeti:
poeti di natura e poeti di cultura. Poeti di natura sono praticamente tutti gli
italiani: ministri, camorristi, democristiani, fascisti, comunisti, banchieri,
brigatisti, onorevoli, disonorevoli, casalinghe, squarquoie, professoresse,
chiromanti e chi più ne sa ne metta. Poeti di cultura sono alcune centinaia di
persone, tormentatrici di sè stesse e degli altri, sussiegose, altezzose,
mafiose, rancorose, studiose, ipocrite, mediocri. Poi anche ci sono i poeti
veri e grandi, di tanto in tanto, si capisce: ma quelli sono talmente pochi
(due o tre per secolo nei secoli di grazia) e fin che vivono sono talmente
emarginati, umiliati, repressi e compressi dagli altri che non mette conto di
parlarne. (Pare assodato che l’unico punto di intesa tra poeti di natura e
poeti di cultura sia la solidarietà feroce contro chiunque abbia il cattivo
gusto di trovare ciò che loro fingono di cercare, sudando e sbuffando e
autocelebrandosi per la ricerca). Per tagliar corto ad ogni possibile illazione
l’autore di questo sincerissimo opuscolo dichiara: 1) che in questo momento in
Italia di poeti grandi non ne vede; 2) che lui è ben lontano dal considerarsi
tale; anzi gli duole d’aver scritto per anni come ranocchia nel pantano
d’Arkadia, cantando in coro con le altre ranocchie e sbattendo il culo per
terra ad ogni movimento. Hélas.
2. Tornando all’Italia e alle sue istorie letterarie. – Ci
sono epoche in cui prevalgono i poeti di natura ed epoche in cui prevalgono i
poeti di cultura. Distinguerle è facile, perché i poeti di natura, che sono
milioni, finiscono per esprimersi collettivamente in un Vate; mentre i poeti di
cultura, che sono centinaia e scrivono cose abbastanza omogenee, nella
mediocrità e nel decoro e nella reciproca vigilanza delle carriere di poeta, si
esprimono appunto in confraternite Arkadie: come ora.
3. D’Annunzio è stato l’ultimo Vate italiano. Dopo
D’Annunzio e dopo la guerra ci ha provato Pasolini a diventare Vate, ma non cè
(sic!) riuscito perché intanto l’Italia si era trasformata (troppe automobili,
troppe scuole, troppa tecnologia, troppo progresso) e anche perché i milioni di
poeti di natura che vivono costì stentavano a identificarsi con la sua immagine
un po’ troppo deviante, un po’ troppo intellettualistica. – Alla fine degli
anni Cinquanta Pasolini tenta l’alleanza con i rétori e quindi col Franco
Lattes, in arte Fortini, ultimo erede di quella verbosità sapienzale e
istrionica che rappresenta anch’essa un segmento di storia italiana e che – a
creargli le condizioni adatte – può far piangere milioni di persone con la
tavola pitagorica e farle fremere con l’elenco del telefono. Ma, se non è tempo
di Vati, non è nemmeno tempo di Rétori, nell’Italia del cosiddetto «miracolo
economico»: la gente compra automobili, balla il twist, mangia bistecche tutti
i giorni e si lustra gli occhi, alla televisione, con le gambe delle gemelle
Kessler. Insomma è allegra, sta bene. (Mentre è noto che i rétori di stile
sublime o tragico, alla Fortini, possono assurgere a Oracolo soltanto se li si
colloca in un quadro di catastrofi, di sciagure spaventose e protratte, di
pestilenze, di guerre.
4. Il primo Bosco Parrasio si fa a Milano nel 1961; ed è
subito Arkadia. I pastori (cinque) prendono il nome di Novissimi ed eleggono a
capobosco provvisorio un Alfredo Giuliani arcade pulito e manierato, di grande
finezza e schizzinosità. Gli altri Novissimi sono, in ordine alfabetico: Nanni
Balestrini, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti. Il più giovane
del gruppo è Nanni Balestrini, ventitreenne; il più discusso è Leo Paolazzi, in
arte Antonio Porta (ma poteva anche chiamarsi, m’immagino, Paolo Parini o
Giovanni Manzoni). Si dice che, in quanto poeta editore dei Novissimi il
Paolazzi abbia all’ultimo momento preso il posto del poeta semplice Giuseppe
Guglielmi traendolo a forza giù di Parnaso e costringendolo a vita appartata e
melanconica. Si dice che i suoi carmi non siano particolarmente nuovi né
particolarmente ispirati. (Ma chi solleva queste obiezioni ignora, primo: che
il primato del poeta-editore sul poeta semplice è consuetudine d’Arkadia;
secondo: che negli anni a venire e per la legge dei grandi numeri il Paolazzi
produrrà versi – pochi – non immortali ma accettabili).
5. Il Vate esiste in funzione del grande pubblico, che non è
necessariamente un pubblico di lettori; l’Arkadia esiste in assenza di
pubblico. Cioè: anche se l’Arkadia finisce per avere alcuni lettori – e sarebbe
difficile non averli: su 50 milioni di persone inevitabilmente ce ne saranno 30
mila che collezionano scatole di fiammiferi, 10 mila che studiano il sànscrito
e mille che leggono poesia arcade – non annette loro la benché minima funzione.
Di fatto l’Arkadia è una società di poeti, in cui tutti sono autori e lettori,
ed è una società chiusa, che non si fa imporre regole e gerarchie dall’esterno.
Tizio può avere mille lettori (che per un arcade sono moltissimi) e contare
nulla; Caio può avere otto lettori (che per un arcade è condizione abbastanza
normale) ed essere un capobosco riverito e autorevole.
6. La terza Arkadia del Novecento italiano (già c’eran state
due Arkadie, quella fiorentina dei Papini Prezzolini Soffici e quella nazionale
degli Emetici (sic!) ) si chiama ufficialmente «neoavanguardia» e si riproduce
per Boschi. – Il secondo Bosco Parrasio si fa a Palermo coi prosatori («Scuola
di Palermo»): ma questo Bosco, se dio vuole, se l’è inghiottito l’omertà
siciliana (nessuno l’ha visto, nessuno ne sa niente, nessuno ne parla). Il
terzo Bosco Parrasio si fa a Firenze («Gruppo 70») con notevole baccano ed uso
di megafoni nelle piazze: ora insegna all’università. Il quarto Bosco Parrasio
si fa in Emilia («Malebolge» ecc.) ed è qui che l’Arkadia potrebbe ricevere, se
volesse, gli apporti più consistenti; ma non vuole. – È, quello emiliano, il
Bosco di Adriano Malavasi, cantore di «Lorante cavaliere errante» ed
attualmente oste in Modena; è il Bosco di Gian Pio Torricelli, internato per
molti anni in un manicomio criminale: a lui e a Dino Campana queste pagine sono
dedicate. Io ricordo di aver conosciuto Torricelli a Fiumalbo, nel 1967, quando
godeva d’una sua piccola notorietà per aver fatto l’eco a Umberto Eco e per
aver pubblicato con le vecchie edizioni Lerici un volumetto intitolato Coazione
a contare: che partendo da uno, due, tre arrivava a
quattromilanovecentonovantotto, quattromilanovecentonovantanove, cinquemila.
Fine. Gli agenti della questura di Modena lo presero un giorno che stava seduto
sulla «pietra ringadora» a fumare una marlboro – così a me i fatti sono stati
raccontati – e gli contestarono l’uso di sostanze stupefacenti (hashish). In
galera diede in escandescenze: fu trasferito al manicomio criminale di Reggio
Emilia, dove ebbe come difensore l’avvocato Corrado Costa, arcade del luogo.
(Interpellato da amici sulla sorte del Torricelli, alcuni anni dopo il fatto,
pare che il Costa abbia detto: «Ora è più calmo», «Sta meglio»). È infine, il
Bosco di Adriano Spatola, che credeva e forse ancora crede nella possibile
esistenza di un Vate arcade. (Ma no, Adriano, ma no: ci sono solo capibosco e
padrini, in Arkadia).
7. Essendo composta prevalentemente di professori
universitari, l’Arkadia celebra le sue feste come sessioni d’esame: nel 1965, a Reggio; nel 1967, a Fano. Tra gli
aspiranti poeti che si presentano alla prova ci sono i promossi e i bocciati e
c’è anche, per ogni sessione, l’incoronato d’alloro, il Novissimo di turno. A
Reggio Emilia Novissima è tal Patrizia Vicinelli, autrice dell’opera a, à, A
(Lerici ed.); che trovandosi così inopinatamente baciata in fronte dalla gloria
comincia, pare, a dare segni di squilibrio. A Fano il nuovo Novissimo è tal
Sigiani o Siggiani: un giovanotto del luogo che s’impadronisce del microfono
per sbeffeggiare gli arcadi e che viene immediatamente incoronato dal capobosco
Sanguineti come portatore dell’unica novità emersa durante il convegno: la
distruzione dell’Arkadia. (Un’idea che Sanguineti sta già accarezzando, e che a
suo modo attuerà).
8. Io mi sono laureato scrittore (non col massimo dei voti
ma neppure con una votazione cattiva) a Fano nella primavera del ’67: in
quell’occasione lessi tre o quattro pagine del mio primo libro, Narcisso,
allora ancora manoscritto, e ricevetti vari consensi tra cui – particolarmente
ambìto e autorevole – quello del capobosco aggiunto Alfredo Giuliani. In tema
di cultura generale ci fu poi chi mi chiese (Filippini, credo) se conoscessi
Barthes, Il grado zero della scrittura. No, non lo conoscevo, (Ma a dichiarare
una cosa simile la bocciatura era assicurata e quindi tergiversai, farfugliai
non so che, riuscii a sgusciare alla stretta degli esaminatori. Corsi a
comprare il mio Barthes).
9. Tra il 1968 e il 1970 la società italiana cominciò a
muoversi, in piazza e nei posti di lavoro: anzi per essere più precisi ciò che
si mosse furono le frange estreme di quella società, i disgraziati da un lato e
i privilegiati dall’altro, insieme (come sempre succede in simili circostanze).
In Arkadia sembrò che fosse arrivata la fine del mondo. L’allora capobosco
titolare, il prof. Edoardo Sanguineti, che dell’Arkadia da lui fondata ne aveva
piene le tasche si comportò come un capitano che deve affrontare la propria
nave, con grande fermezza e con grande dignità. Per prima cosa chiuse il secolo
con trent’anni d’anticipo: in un’immortale antologia fermò le lancette del
tempo sulla cinquina dei Novissimi, destinati a restare tali per i secoli ed i
millenni a venire. Disse poi che i giochi erano tutti giocati, le avventure
tutte vissute, tutte le parole dette e lette e tutti i romanzi romanzati. Che
stava per iniziare l’età terza o dell’intendimento prevista settecent’anni
prima dall’abate Gioacchino da Fiore; l’età degli uomini e della ragione
pronosticata dal Vico. Si buttò in politica: diventò consigliere comunale a
Genova e deputato per due legislature; e può darsi (la carne, si sa, è debole)
che prima o poi ci ritorni, in Arkadia; ma bisogna dargli atto che da allora se
ne è tenuto lontano, ponendosi piuttosto, in quanto poeta, problemi di pubblico
anziché di gerarchia arcade. (Cosa che torna a suo onore).
10. Abbandonati dalla loro Guida nel mezzo della bufera i
rimanenti arcadi persero quel poco senno che avevano, accalcandosi e
scavalcandosi verso le uscite della poesia, del romanzo, di tutto ciò che aveva
a che fare con la letteratura…
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