mercoledì 6 novembre 2013

report di prossima pubblicazione in volume


Tracce della relazione tenuta ad Ivrea il 28.10.2013 sul tema “pensare oltre l’ostacolo della parola”.
Guardando e (in qualche modo - ma quale?) leggendo da fuori e da lontano all’indistinto confine fra carmi (la poesia) e filastrocche (la filosofia) porgo una prosa (un blocco di testo) più elencativa che argomentativa,ove si intrecciano la lettura di appunti sul tema presi in precedenza e contrappunti interlocutori  a quanto sentito negli interventi precedenti mio(Accattino,Ermini ,Simonetti, Perrotta).Partendo da qui: dove Accattino parla in funzione di un progetto liberato o possibilmente liberatorio,il che acquisisce senso nella catastrofica pseudo linearità delle contingenze storiche,poichè di simili progetti non se ne realizzarono nè s’avverarono mai i presupposti che implicavano,basti rammentare che sua tematica forte di fu proprio il disastro dell’editoria italiana,in Ermini  sono a manifestarsi le coordinate del luogo di esilio disperato,con le inconfondibili tonalità (anche emotive) delle passioni tristi dell’heideggerismo,e la linea Heidegger –Severino compare anche nello statement di Raffaele Perrotta- una linea che mena ai presocratici o piuttosto se ne diparte attraversando dispute eleatiche e neoeleatiche,ma poi scompare nella dichtung lunare leopardiana,ci si aspettava,ma era come sottotraccia il Virgilio di “carmina vel coelo possunt deducere lunam” caro fra altri a Cortàzar, ed è Perrotta a marcare un possibile svincolo da compromessi socio comunicazionali e servilismi narratologici,polemizzando fieramente contro la semantica,in primis quella istituzionale;si traduce:dalla parte di una semiosi illimitata(due nomi:Peirce e Garroni),si direbbe,ed è un modo di dire,se si dice .Con Simonetti si arriva a due topiche in merito alle quali non posso permettermi neutralità:
i-Lacan,qui editato in versione fluxus,non dunque in versione terapeutico adattativa e via modellizzando;
ii-la visual poetry, che per me è un (non) genere né in crisi,pur considerando che se crisi c’è sta nell’orizzonte di ricezione di ogni forma di testualità moderna(e sue derive). né in crescita,più che altro in una condizione di stato stazionario,uno steady state che non esclude però turbolenza alcuna,salvo i casi,per altro rilevanti,di alcune sue forme storicizzate per date e contesti cui accenno appunto sotto,-che è una delle ragion d’essere del museo in cui siamo venuti a trovarci (la cosa era già stata sottolineata nell’intervento di Lorena Giuranna ), in quanto sintomo ed insieme sua manifestazione figurale,lontana dunque dal poter essere ridotta ad oggetto o strumento didattico se non (e forse neppure) nelle forme depositate e storicizzate degli ultimi cinquant’anni,ma la storia comincia prima e prosegue altrove in tempi altri, sempre che tempi li si possa chiamare. E siamo ad un cambiamento di paradigma,o forse a meglio dire ad una fase postparadigmatica interna ad un non reversibile percorso, ove pare si vada scoprendo che proprio l’instabilità,la turbolenza e le catastrofi di transizione  fra ordine e caos siano le sole invarianti strutturali(in una parola,che però ne racchiude due: chaosmos; la dice lunga l’ineluttabile modalità del visibile che Martino Oberto trasse da Joyce). Pur permanendo altresì questioni di canone difficili da aggirare, ed ancor più da risolvere a breve  Su entrambi i versanti è un miraggio,per me,l’oggettività come lo è un’elaborazione in chiave soggettiva:insistevo infatti ad Angera nel 1975 che recupero della parola altro non potesse essere che l’approccio ad un black hole, ma la citazione lacaniana,forse troppo ovvia,ebbe null’altro che un successo momentaneo senza alcuna adesione,d’altra parte incombevano,ancora in incognito,restaurazioni, riflussi e romanzerie annesse,parole innamorate e quant’altro(troppo),viste e riviste le sovrapposizioni letali fra le ragioni dell’egemonia, del mercato , del mainstream. Riguardo alla visual poetry ed alla scrittura sperimentale,essendone produttore,e da qualche anno in rete e prima ancora,come anche adesso,off web,insieme a un serial interminabile di scritture asemantiche variamente definito(esempio: asemic ghostwriting, asemic satzenschrift, storie della buonanotte,allegorie della scrittura  etc) ) sarebbe d’uopo il silenzio invece di scuse non richieste. Se non sotto forma del paio di oggetti estetici che rilascerò ad Accattino come pegno della mia partecipazione. Per fedeltà ormai esclusiva alla forma breve della quale sono fautore e per tornare ad un briciolo di serietà,quasi ci fosse mai stata vengo ad enunciare quella che era la traccia primaria del mio intervento: si citava Benjamin,laddove si richiama a Rosenzweig, sull’identità dei personaggi tragici che sono tali perché apprendono l’uso della parola esclusivamente a fini di contesa;da  qui la parola come comando,giudizio,condanna,conflitto,privazione-la domanda era se l’uscita dall’orizzonte della rappresentazione tragica fosse poi una tragedia o piuttosto Finnegans wake. E,questo,all’infuori degli orientamenti prescrittivi di certo modernismo. E sarà stato di giovamento l’essersi ricordati dell’annotazione di Nietzsche in cui è spiegato che dramma non designa l’azione,semmai l’accadere,in senso ieratico. In luogo di convenevoli conclusivi concludo,o meglio sospendo un report che desideravo forse invano meno stressante per l’uditorio e per il lettori con operazionismi metastetuali da Blanchot intorno al gioco insensato di scrivere,alla forma breve sganciata da modelli scolastici od accademici.
(I)Facendo appello ad una memoria non erudita,citerò gli antichi testi cinesi che sono fra i più significativi,certi testi del pensiero indù,il linguaggio greco primitivo,compreso quello dei dialoghi.

(II)…è facile vedere le soluzioni che rischiano di essere incompatibili con il problema:ad esempio un linguaggio di affermazione e risposta,oppure un linguaggio lineare dallo sviluppo semplice,insomma un linguaggio in cui non sia messo in gioco il linguaggio stesso.

Riccardo Cavallo nov  2013




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